Philosophy

EIn this paper I intend to put forward some criticism of the purely procedural model of bioethics, which, in fact, leads to delegating to biopolitics and biolaw the finding of a purely pragmatic solution to the issues for which bioethics was "invented" over forty years ago. This delegating takes place after the transition from the thesis, dear to modernity, whereby in ethics reasoning should avoid any discussion regarding its foundation or ultimate justification (Etsi Deus non daretur) to the contemporary affirmation of a substantial ethical agnosticism, which, in the name of the incommensurability of morals, should construct procedures as if no sole substantial moral were possible (Etsi ethos non daretur) and act as a guarantor of ethical pluralism. These theses will be discussed and an attempt will be made to demonstrate why it is necessary to establish a link between true and good, and how this is possible only by referring to ontology. The conclusion points to the need to propose bioethics explicitly in terms of content that satisfies the presumed axiological neutrality of procedural bioethics, which however, turns out to be theoretically weak and practically unable to protect the ethical pluralism for which it would like to be the guarantor. The conclusion is that only by referring to ontology can bioethics, which is a fully fledged form of moral philosophy, act as a guarantor of pluralism within the truth and oppose the authoritarian tendencies concealed under the liberal guise of ethical agnosticism.

Headaches can be considered as a paradigm for the so-called “invisible” diseases; difficulties that headache patients encounter and complain from often relate more to the lack of understanding and communication than to lack of a cure by their doctors. Even when treatment is available, although symptoms are relieved, this might not cure the suffering and the burden caused by headache. This paper will present the difference between disease and illness, will highlight difficulties encountered by patients with “invisible” diseases and will underline how these difficulties might be reduced by a better doctor–patient relationship. The physician who acknowledges and considers the subjective aspects of the illness, has important elements both for a personalised diagnosis and for a therapy that the patient will be able and willing to follow. The physician has to improve and to train his/her human capabilities in order to have a good relationship with the ill person, and not only to use his/her technical skills for individualising and curing the disease in the patient’s body.

The distinction between suffering and pain express the two faces of a disease that influence a patient quality of life. Suffering is a composite phenomenon. It implies moral elements, such as the question that a human being can ask about the sense of life, the worries about himself and his own family; existential issues and ethical components. Suffering can rise not only when pain is not present, but also, sometimes, just when pain is won. We have to avoid to think of the patient’s suffering always as a psychiatric pathology. This is a new and more adapted approach to suffering itself. Pain therapies should respect patient’s personalities and requires a proportional use of the therapy itself. Quality of life, pharmacological pain treatment, informed consent, living will: we have to consider all those issues deeply, starting from the perspective of the pain-suffering distinction.

Objective To assess the attitudes of physicians in Milan, Italy, intensive care units (ICUs) regarding end-of-life decisions. Design Anonymous self-administered questionnaire. Setting All 20 ICUs in Milan. Participants Physicians employed in the ICUs. Measurements and results The response rate was 87% (225 of 259). Eighty-two percent of respondents estimated that <10% of deaths in their ICU followed foregoing treatment, whereas 6% estimated that more of 25% deaths followed foregoing treatment. Male gender, long professional experience, and activity mainly in the ICU were significantly associated with greater willingness to forego life-sustaining treatments. Eighty-nine percent of respondents said ethical consultation on end-of-life decisions was never sought; 58% said they would not respect the expressed desire of the patient to forego treatment; and 48% never noted the decision to forgo treatment on the clinical record. After a decision to withdraw treatment, 31% of physicians said they maintained ongoing treatment, but withheld CPR for cardiac arrest; 47% considered withholding and withdrawing life support were not ethically equivalent. Conclusions Most physicians considered that most ICU deaths were not the result of deliberately foregoing life support. Although the overall trend was to intervene minimally in patients' dying, individual factors significantly influenced end-of-life decisions. Few physicians sought external ethical advice and decisions were entirely taken by the medical team. Direct involvement of family and treating physician was limited, and the expressed wishes of the patient were generally ignored.

La politica da sempre ha avuto a che fare con la vita umana almeno attraverso due concetti chiave, quello di cittadinanza e quello di dignità umana. Ma il termine biopolitica è strutturalmente ambiguo e bisognerebbe discutere sulla legittimità di una politica della vita che di fatto pretenda di essere una politica sulla vita. Oggi, nell'epoca della transizione epidemiologica, della globalizzazione dei mercati e della caduta, in Occidente, delle ideologie totalitarie, potremmo definire come biopolitica il consolidamento di quella macroideologia che tende ad influenzare, all'insegna di un unico linguaggio, che pretende di essere formale, procedurale e perciò rispettoso del pluralismo culturale e religioso, le legislazioni dei singoli Paesi in materia di politica sanitaria. In questo senso potremmo parlare di una biopolitica liberale, che si afferma pur sempre attraverso lo strumento legislativo, ma si pone all'insegna dell'estensione delle possibilità delle manipolazioni della vita umana, rifuggendo, almeno di diritto, dal modello impositivo, ma di fatto condizionando largamente i costumi dell'occidente. Qual è la differenza tra una biopolitica autoritaria, come quella che già emergeva, secondo Karl Popper, dalle pagine della Repubblica di Platone, e che poi ha trovato il suo apice nel biologismo salutista e razziale del nazismo, e la nascente biopolitica liberale, che parla il linguaggio dei diritti dell'individuo, che spesso coincidono, però, con i diritti e le rivendicazioni del cittadino consumatore?

Il soggettivismo etico e il relativismo sono due impostazioni pratiche e teoriche che, nel corso dei secoli, da Platone in poi, sono state sottoposte a diverse, articolate e motivate critiche. Il relativismo, in filosofia, come è noto, rappresenta prima di tutto un orientamento gnoseologico ed epistemologico che, in seconda battuta, si è espresso anche sul terreno della morale, con l'intento di opporsi alle classiche linee deontologiche e teleologiche che hanno di fatto e di diritto costituito (insieme con la variante intuizionistica) la base di gran parte delle teorie etiche moderne e contemporanee.

Dopo l'ampia e certamente giustificata eco di polemiche e sdegno che ha suscitato l'articolo filosofico di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, dal titolo After-birth abortion: why should the baby live? («Journal of Medical Ethics», 2012), che sostiene la legittimità dell'infantididio equiparandolo all'aborto, è importante discuterlo con rigore.

Questa ricerca e la sua pubblicazione sono state finanziate in parte dall'Università Cattolica nell'ambito dei suoi programmi di promozione e diffusione della ricerca scientifica (esercizio 2005) e in parte dal Dipartimento di Filosofia della medesima Università È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata a qualsiasi titolo, eccetto quella ad uso personale.

In bioetica capita spesso di dover affrontare questioni emotivamente coinvolgenti, di difficile soluzione teorica. Ogni valutazione morale dovrebbe stabilire in modo non arbitrario -cioè non affidato alla volontà, cioè alla pura decisione -una gerarchia di beni da tutelare e promuovere in una particolare situazione. I conflitti morali non possono essere sciolti proponendo, secondo un'espressione diffusa, ma teoreticamente inappropriata, "il male minore" -il male non dovrebbe mai essere in sé oggetto di scelta -ma indicando il "miglior bene possibile" che si deve perseguire stando le condizioni concrete entro cui si deve esercitare la scelta stessa.

In un saggio del 1928, dal titolo La posizione dell'uomo nel cosmo, Max Scheler osserva che se si chiede a un europeo dotato di buona cultura che cosa s'intenda propriamente con il termine "uomo", ecco che allora nella sua mente si fronteggeranno immediatamente tre ordini di idee completamente irriducibili» 1 . In primo luogo l'immagine di uomo che è rintracciabile nella tradizione giudaico-cristiana, che parla di creazione, di paradiso terrestre, di peccato originale; poi quella che emerge dal mondo greco-antico, che indica nel possesso della ragione, del logos, la specificità dell'esser uomo; infine quella elaborata dalle scienze naturali, e poi adottata dalle scienze sperimentali, per cui l'uomo non sarebbe altro che il frutto tardivo dell'evoluzione terrestre, cioè «un essere che si distinguerebbe dalle precedenti forme del mondo animale solo per un grado di complessità più elevato nella combinazione di quelle energie e capacità che sono già presenti anche nella natura pre-umana» 2 . Tuttavia, continua Scheler, anche se possediamo ben tre antropologie, una teologica, una filosofica e una scientifica, poiché «procedono del tutto incuranti l'una dall'altra, noi ci troviamo purtroppo sprovvisti di una idea unitaria dell' uomo» 3 .

Lo scopo di queste pagine, in conformità al titolo che le definisce e al contesto generale entro cui sono state pensate, è quello di dar luogo ad un tentativo di chiarificazione di quelle che si configurano come le problematiche specifiche di un periodo storico, quello a noi contemporaneo, e di una zona geografica, l'Occidente: entro queste coordinate è posto il riferimento alla «civiltà tecnologica». Usare questa espressione significa, prima di tutto, pensare che esistano e siano esistite anche delle civiltà pre-tecnologiche o a-tecnologiche; in secondo luogo, questa definizione rimanda, ovviamente, al fatto che la tecnologia è il frutto dello sviluppo scientifico e culturale dell'Occidente e che la sua estensione, permessa dai fenomeni della globalizzazione, non è mai semplicemente l'estensione d'uso di una serie di strumenti, ma corrisponde alla diffusione di un insieme di categorie culturali che finiscono con il determinare alcuni caratteri dell'éthos contemporaneo.